Le fonti storiche
Numerosi autori romani hanno scritto in merito alla cucina romana: Apicio, Giovenale, Petronio, Columella, Plinio il Vecchio.
Apicio era un gastronomo, cuoco e scrittore romano, ed è la principale fonte sulla cucina romana. Il suo trattato, De re coquinaria, influenzò la cultura culinaria romana, e riprese vita alla fine del 1400 quando, ristampato, influenzò i cuochi rinascimentali.
Amante del lusso e dello sfarzo, descrive ricette elaborate nella preparazione e curate nella decorazione e presentazione dei piatti, attenzione che venne ripresa cuochi rinascimentali. Apicio vede il cibo come esaltazione del proprio status sociale: la ricercatezza e l’originalità, in grado di sorprendere i commensali, esprime la ricchezza e il potere delle classi più abbienti. Esempio è banchetto di Trimalcione descritto nel Satyiricon di Gaio Petronio Arbiter:
“Tornando all’antipasto, su un grande vassoio era sistemato un asinello, di bronzo corinzio, che portava una bisaccia a due tasche, delle quali l’una conteneva olive chiare, l’altra scure… piccoli sostegni, poi, saldati al piano del vassoio, sorreggevano dei ghiri spalmati di miele e cosparsi di polvere di papavero. Non mancavano anche delle salsicce che friggevano sopra una griglia d’argento e sotto la griglia prugne siriane con chicchi di melograno… un vassoio rotondo che aveva disposti, uno dopo l’altro, in circolo, i dodici segni zodiacali, sopra ciascuno dei quali il maestro di cucina aveva sistemato il cibo proprio e adatto al referente… pollame e ventri di scrofa ed in mezzo una lepre, provvista di ali, in modo da sembrare un Pegaso… un vassoio, sul quale era sistemato un cinghiale di grande mole, e per giunta fornito di un cappello, dalle cui zanne pendevano due cestini, fatti di foglie di palma intrecciate, ripieni l’uno di datteri freschi, l’altro di datteri secchi. Intorno al cinghiale, poi, dei porcellini fatti di pasta biscottata, dando l’impressione di stare attaccati alle mammelle, indicavano che il cinghiale era femmina…”
Da altri autori abbiamo fonti indirette, come le descrizioni dei pasti preferiti da illustri romani. Plinio il Vecchio descrive un Tiberio dai gusti semplici e ghiotto di cetrioli.
Elio Sparziano descrive il piatto preferito da Adriano: il tetrafarmaco, un involucro di pasta dolce ripieno di carni di fagiano, di lepre e di cinghiale, certamente allusivo alla passione di Adriano per la caccia.
Giovenale racconta della pesca di un gigantesco rombo, regalato a Domiziano, per cui non si trovava pentola abbastanza grande e che impegnò il Senato Romano nella ricerca di pentole abbastanza grandi per la cottura del pesce.
Seneca criticava la sregolatezza dei suoi contemporanei lodando l’antica frugalità degli antenati, quando i Latini si nutrivano di polente (puls) in parte sostituite nel II secolo a.C. dal pane.
Di polta e non di pane vissero per lungo tempo i Romani
La sobrietà alimentare dei romani era legata agli inizi leggendari di Roma quando sulle navi di Enea, secondo il racconto di Virgilio, durante una travagliata navigazione durata sette anni, i marinai troiani potevano nutrirsi quasi esclusivamente della polenta di farro accompagnata dai pesci pescati durante il viaggio e dalla poca carne acquistata nei porti.